mercoledì 3 marzo 2010

Ad Auschwitz tutto era possibile

Mi sveglio dopo circa un’ora di sonno è arrivato il grande giorno. Dopo un’abbondante colazione esco dall’albergo. Nevica tanto. Salgo sul pullman con le altre persone, sono stanca ma l’adrenalina è alta. Dopo un viaggio durato circa un’ora e mezza scendo finalmente dal pullman. I miei occhi cercano avidamente l’entrata del campo. Sono ad Auschwitz. E’ mattina presto e desidero entrare per prima. Voglio assaporare il silenzio in solitudine. Fortunatamente gli altri si sono fermati ad alcuni shops per comprare dei libri e dei dvd. Apro la porta e davanti ai miei occhi appaiono viali con grandi alberi e baracche di mattone chiamati blocchi. M’incammino verso il cancello con la scritta “Arbeit macht frei”: uno dei simboli più importanti del campo. Sono sola, i fiocchi di neve scendono giù piano e tutto il resto è fermo: parla solo il silenzio. Osservo le rose infilate nel cancello e aldilà di questo intravedo fili spinati e altri blocchi mattone. Il silenzio si fa sempre più pesante e le sensazioni aumentano fino a sentire la disperazione dei prigionieri. Quasi mi sento impaurita stando lì sola ma la solitudine ben presto svanisce: entrano le persone del mio gruppo e inizia la visita. Auschwitz è stato costruito in quel luogo perché si trattava di una valle paludosa con una falda acquifera inquinata dove le zanzare erano un continuo tormento. Un posto ideale, secondo Himmler, per un campo di prigionia. Inoltre aveva ottimi collegamenti ferroviari, era isolato e non facilmente osservabile. E così nel 20 maggio del 1940 arrivarono i primi prigionieri e continuarono ad arrivare con camion e treni fino al novembre del 1944. Ogni convoglio di deportati conteneva circa 2.500 prigionieri che arrivavano con molta frequenza. Appena giunti a destinazione i treni si disfacevano del “carico umano” sopravvissuto al viaggio di circa dieci-quindici giorni segnato da condizioni di vita e igieniche inimmaginabili. Dopo l’arrivo dei deportati avveniva la selezione tra gli abili al lavoro (di solito uomini e donne giovani) e coloro da inviare direttamente alla camera a gas (madri, bambini e anziani). Le loro valigie venivano portate presso il settore Kanada dove si effettuava la cernita e l’imballaggio dei beni. Alle donne destinate alla morte venivano tagliati i capelli che servivano per realizzare tessuti. I prigionieri abili al lavoro prima venivano privati di abiti e gioielli che avevano addosso e dei documenti d’identità e poi condotti nei bagni per la disinfettazione e la rasatura. Dopo la doccia ricevevano il vestiario del campo: una casacca, un paio di pantaloni e degli zoccoli, indipendentemente dalle stagioni. E da qui iniziava la dura e assurda vita del prigioniero: sveglia alle quattro del mattino, colazione veloce a base di caffè che era più che altro un inspiegabile liquido scuro e caldo con un pezzo di pane, appello sotto la pioggia, neve o sole torrido che costringevano i deportati ad aspettare in piedi e in fila per ore. A questo seguivano pesanti e faticosi lavori che duravano alle sette di sera, interrotti da una piccola pausa pranzo a base di una brodaglia immangiabile. Alla sera, prima di entrare nelle baracche si faceva un secondo appello (quello più lungo della storia è durato diciannove ore). La cena prevedeva a base di pane secco e a volte un po’ di burro. Poi si andava a dormire su letti a castello infestati da pulci, zecche e pus dei prigionieri. Essendo migliaia i prigionieri erano costretti a dormire sul fianco e stretti tra loro. Non c’erano servizi igienici nè assistenza medica: i medici nazisti erano lì solo per compiere assurdi e inutili esperimenti sui corpi dei deportati. Fame, tifo ed epidemie erano all’ordine del giorno ma non solo. Erano frequenti anche botte, punizioni, fucilazioni e morti di persone sfinite dal duro lavoro e dalla pesante condizione di vita. Il 27 gennaio del 1945 il campo venne liberato dalle truppe sovietiche. In totale ad Auschwitz sono state uccise circa un milione e cinquecento mila persone. Per non lasciare tracce le SS bruciarono i loro cadaveri nei forni crematori o nelle fosse comuni. Nel museo di Auschwitz, composto da diversi blocchi, osservo lentamente le vetrine dove sono esposti i documenti degli Ebrei deportati e le registrazioni fasulle delle SS. Ci sono alcune raccapriccianti foto sulle pareti, tra queste, quella di bambini in pelle e ossa fotografati durante gli esperimenti del macabro dottor Mengele. Entrando in alcune stanze sento improvvisamente odori forti che sembrano aver impregnato i muri. Vedere i capelli, ormai ingrigiti, delle persone morte nella camera a gas mi lascia senza fiato. C’è persino una lunga treccia in mezzo ai quintali di capelli. In una vetrina vedo una montagna di occhiali, in un’altra un mucchio di protesi di persone handicappate e in un’altra ancora migliaia di scarpe per bambini e andando avanti scorgo anche quelle per adulti. I miei piedi mi portano di vetrina in vetrina ma la mia mente è travolta da una tempesta di perché. Il mio cuore pulsa velocemente e il mio animo rifiutando la vista di questi oggetti strappati violentemente agli Ebrei è affranto. Nel silenzio assoluto le persone camminano lentamente a testa bassa e qualcuno con il fazzoletto in mano. In un altro blocco centinaia di foto dei prigionieri sono appese lungo la parete di un interminabile corridoio. Facce smunte con corpi che indossano divise a righe che somigliano a pigiami mi osservano: in basso sono incise le date di arrivo e di decesso. La maggior parte dei deportati è sopravvissuta ad Auschwitz neppure un mese o addirittura un paio di settimane. Le loro condizioni di vita erano talmente disastrose che noi oggi non possiamo neanche immaginarle. Rabbrividisco non per il freddo ma per i loro occhi persi e terrorizzati. Giungo il blocco n.11 tristemente chiamato “il blocco della morte” dove per l’appunto la morte era certa. Ospita celle strette e buie dove passa solo un filo d’aria. Qui un gran numero di prigionieri veniva ammassato e lasciato in piedi per giorni, dopo i quali era difficile sopravvivere. Nel cortile vedo un muro dove sono stati fucilati migliaia di Ebrei; oggi ci sono corone di fiori che li ricordano. Di fianco noto finestre murate o coperte da assi di legno che impedivano agli altri prigionieri di sapere che lì dentro “i medici” realizzavano esperimenti su bambini, su gemelli e sulla sterilizzazione di donne e uomini. La maggior parte moriva a causa di atroci dolori o per indebolimento fisico. Le stanze dei forni crematori erano scure, quasi nere. La camera a gas si trova a questi di fianco per facilitare il trasporto dei cadaveri. Dopo un veloce pranzo, il pullman ci porta a Birkenau che dista circa 1 km. e mezzo da Auschwitz. Qui la situazione era peggiore di quella appena descritta. Entrando mi accorgo di camminare sopra dei binari sui quali arrivavano treni da varie parti d’Europa con gli Ebrei destinati alla “Soluzione Finale”, cioè lo sterminio. Le baracche avevano solo il tetto perciò la pioggia o neve filtravano dentro e i pavimenti non erano di cemento ma fango, per cui i prigionieri quando entravano profondavano nella terra fino alle caviglie. I camini c’erano ma non venivano mai accesi. L’igiene non esisteva neanche lì. Il campo è enorme, vasto, interminabile e con la neve attorno crea un’atmosfera quasi spettrale. Davanti a me chilometri di fili spinati e baracche isolate, molti delle quali essendo state demolite hanno lasciato scheletri di camini. Nevica sempre più forte e ad ogni mio passo penso agli Ebrei che solo con il loro “pigiama” leggero e gli zoccoli di legno camminavano come me sotto innumerevoli fiocchi di neve, al freddo, con la stanchezza del lavoro forzato e della mancanza di una giusta alimentazione. Allora mi chiedo: come facevano? Che cosa li portavano a continuare a vivere e ad avere le speranze? Birken(au) in tedesco vuol dire “alberi di betulla” infatti lì ce ne sono tantissimi. Non riesco a vederli come un bel panorama perché so che sotto la neve, sotto la terra sono sepolte le ceneri di migliaia di persone. E’ come passeggiare su un grande cimitero. Visito la “Sauna” dove venivano disinfettati i vestiti degli Ebrei per poi essere inviati a Berlino e venduti ai tedeschi. La stanchezza, improvvisamente mi sta travolgendo, ho visto e percepito troppe cose, la giornata è stata lunga e piena di forti emozioni. Ma la vista delle foto raccolte dai bagagli degli Ebrei che raffigurano famiglie intere, ritratti di bambini sorridenti, uomini e donne elegantemente vestiti, ragazze belle e spensierate, mi infondono una tenerezza incredibile. Sorrido guardandoli e immagino i loro giorni immortalati nelle foto. Mi allontano con il cuore gonfio di tristezza e tanta commozione. Non potrò mai dimenticare questi luoghi e chi è stato condannato a viverli. All’uscita mi è venuto in mente una citazione letta da poco in un libro: “Raccontatelo ai vostri figli, e i figli vostri ai loro figli, e i loro figli alla generazione seguente.” (Gioele,1,3).

lunedì 9 marzo 2009

Donne anonime.

In occasione della festa della donna di ieri vorrei condividere con voi questa esperienza. Di recente è morto il mio cane, la perdita è stata dolorosa e il vuoto che ha lasciato è incolmabile. Allora ho cominciato a navigare in Internet alla ricerca di un cucciolo abbandonato, indesiderato o maltrattato per portarlo a casa. Grazie a queste reti ho conosciuto tante donne di varie regioni d’Italia che si occupano di salvare i cani trovati per strada, ammalati, o del canile, divulgando il più possibile gli annunci, i passaparola e molti di questi vengono accolti nelle loro case per essere curati e amati. Ho fatto caso che…la maggior parte di loro sono donne, forse a causa della maggiore sensibilità. I giornali e la tv parlano molto del lavoro di volontariato per bambini, poveri e poco di queste donne quasi anonime. Eppure hanno un grande cuore anche loro, lottano giorno per giorno, piangono se un cane finisce abbandonato in canile/lager o viene maltrattato per strada. Lottano per salvare anche i gatti indesiderati, abbandonati, gettati giù dal balcone e lo fanno semplicemente per Amore. E io penso che questa festa della donna possa essere dedicata anche a loro. Donne anonime ma di grande forza interiore.

domenica 15 febbraio 2009

Ciao Wolf...

Ieri ci ha lasciato Wolf.
A te...
"Cercavo un cane da amare e tu hai scelto me per darmi amore,
I tuoi occhi dolci e malinconici sempre mi guardavano, e io sempre ti accarezzavo,
Nella nostra passeggiata il percorso era sempre lo stesso, ma io e te eravamo felici di farlo perchè ci aspettavano sempre degli incontri diversi, tu con altri cani e io gli altri umani...
Una maledetta malattia ti ha portato via troppo velocemente da me,
ma non l'amore che ho per te.
Sarai per sempre nel mio cuore...
Mio Wolf...corri libero lassù...io starò con te come tu starai con me..."

martedì 10 febbraio 2009

Tutti matti per i gatti.

In occasione della Festa del Gatto, 17 Febbraio, vorrei segnalare un'interessante e simpatico incontro a Milano (potrebbero farlo anche altri comuni di tutta l'Italia). I NOBILGATTI, UNA LEZIONE DI VITA E DI STILE DAGLI AMICI FELINI
10 feb 09Dal 16 al 20 febbraio alla Libreria Mursia di Milano incontri con Giorgio Celli (17 febbraio) e Federica Sgarbi (19 febbraio). S’intitola I NOBILGATTI la quinta edizione della rassegna TUTTI MATTI PER I GATTI organizzata dalla libreria Mursia di Milano (via Galvani, 24) con l’Ufficio Diritti Animali della Provincia di Milano in occasione della Festa del Gatto che si celebra il 17 febbraio: diciassette, in numero romano XVII, è l’anagramma di VIXI, cioè ho vissuto e i gatti si sa hanno molte vite, febbraio è stato scelto perché è il mese dominato dall’Acquario, segno degli spiriti liberi e indipendenti. Come i gatti, appunto.
La settimana felina propone incontri con autori gattofili e la tradizionale raccolta di cibo per gli ospiti a quattro zampe del gattile di Mondo Gatto. Inoltre si potranno consegnare direttamente in libreria le foto dei gatti per la pubblicazione sul calendario I Giorni dei gatti edizione 2010. Questo il programma delle presentazioni:
17 febbraio ore 18,00 - “Destini” di Giorgio Celli e Costanza Savini.Racconti brevi e strani che intrecciano esistenze di uomini e di donne posseduti da vari sogni e ossessioni. Ogni racconto nasconde la metafora di un destino, e spesso di una vocazione. Così accade nella rivisitazione della storia di Caino e Abele, nei tre finti verbali dal processo di Norimberga e nella storia del gatto incandescente.
19 febbraio ore 18,00: “Della filosofia e dei gatti” di Federica SgarbiL’autrice, laureata in filosofia e amante dei gatti, si trova in prima linea nella difficile impresa di far adottare gli ospiti abbandonati di un gattile. Le idee di grandi pensatori si rivelano un valido aiuto per mettere a punto una strategia che porterà molti felini nelle case di nuovi proprietari umani. Divertente pamphlet che mescola Kant con code e fusa, Plutarco con cucce e pelo.
A tutti gli incontri saranno presenti Pietro Mezzi, assessore al Territorio, Parchi e Diritti degli Animali della Provincia di Milano ed Edgar Meyer, referente per l’Ufficio Diritti degli Animali.

martedì 3 febbraio 2009

Tenerezza....

Mi piace guardare i miei due gatti dormire abbracciati, mi sdraio accanto a loro e li osservo. In quei momenti loro sono beati, quasi sorridono, quei musi addormentati mi creano una sensazione di pace, tenerezza, amore e serenità.

Ancora tenerezza...

martedì 20 gennaio 2009

Una fotografa particolare...

Tanja Askani una fotografa e scrittrice cecoslovacca da anni residente in Germania ha raccolto animali selvatici come lupi, faine, conigli selvatici, volpi, cerbiatto, ecc. in pericolo di morte o malattia nella sua casa e nel suo bosco, li ha curati e salvati. Nel frattempo li fotografava in compagnia dei suoi cani o il cerbiatto con un coniglio selvatico in atteggiamenti affettuosi. Ha voluto dimostrare attraverso queste foto che anche tra gli animali esistono i sentimenti nobili come l'Amore, nonostante che siano diversi tra loro. Qui vediamo un lupo artico che gioca con uno dei cani della fotografa, un coniglio selvatico e il cerbiatto, amici per la pelle! Un cucciolo di volpe che gioca con uno dei cani della fotografa.