Mi sveglio dopo circa un’ora di sonno è arrivato il grande giorno. Dopo un’abbondante colazione esco dall’albergo. Nevica tanto. Salgo sul pullman con le altre persone, sono stanca ma l’adrenalina è alta. Dopo un viaggio durato circa un’ora e mezza scendo finalmente dal pullman. I miei occhi cercano avidamente l’entrata del campo. Sono ad Auschwitz. E’ mattina presto e desidero entrare per prima. Voglio assaporare il silenzio in solitudine. Fortunatamente gli altri si sono fermati ad alcuni shops per comprare dei libri e dei dvd. Apro la porta e davanti ai miei occhi appaiono viali con grandi alberi e baracche di mattone chiamati blocchi. M’incammino verso il cancello con la scritta “Arbeit macht frei”: uno dei simboli più importanti del campo. Sono sola, i fiocchi di neve scendono giù piano e tutto il resto è fermo: parla solo il silenzio. Osservo le rose infilate nel cancello e aldilà di questo intravedo fili spinati e altri blocchi mattone. Il silenzio si fa sempre più pesante e le sensazioni aumentano fino a sentire la disperazione dei prigionieri. Quasi mi sento impaurita stando lì sola ma la solitudine ben presto svanisce: entrano le persone del mio gruppo e inizia la visita.
Auschwitz è stato costruito in quel luogo perché si trattava di una valle paludosa con una falda acquifera inquinata dove le zanzare erano un continuo tormento. Un posto ideale, secondo Himmler, per un campo di prigionia. Inoltre aveva ottimi collegamenti ferroviari, era isolato e non facilmente osservabile. E così nel 20 maggio del 1940 arrivarono i primi prigionieri e continuarono ad arrivare con camion e treni fino al novembre del 1944. Ogni convoglio di deportati conteneva circa 2.500 prigionieri che arrivavano con molta frequenza. Appena giunti a destinazione i treni si disfacevano del “carico umano” sopravvissuto al viaggio di circa dieci-quindici giorni segnato da condizioni di vita e igieniche inimmaginabili. Dopo l’arrivo dei deportati avveniva la selezione tra gli abili al lavoro (di solito uomini e donne giovani) e coloro da inviare direttamente alla camera a gas (madri, bambini e anziani). Le loro valigie venivano portate presso il settore Kanada dove si effettuava la cernita e l’imballaggio dei beni. Alle donne destinate alla morte venivano tagliati i capelli che servivano per realizzare tessuti. I prigionieri abili al lavoro prima venivano privati di abiti e gioielli che avevano addosso e dei documenti d’identità e poi condotti nei bagni per la disinfettazione e la rasatura. Dopo la doccia ricevevano il vestiario del campo: una casacca, un paio di pantaloni e degli zoccoli, indipendentemente dalle stagioni. E da qui iniziava la dura e assurda vita del prigioniero: sveglia alle quattro del mattino, colazione veloce a base di caffè che era più che altro un inspiegabile liquido scuro e caldo con un pezzo di pane, appello sotto la pioggia, neve o sole torrido che costringevano i deportati ad aspettare in piedi e in fila per ore. A questo seguivano pesanti e faticosi lavori che duravano alle sette di sera, interrotti da una piccola pausa pranzo a base di una brodaglia immangiabile. Alla sera, prima di entrare nelle baracche si faceva un secondo appello (quello più lungo della storia è durato diciannove ore). La cena prevedeva a base di pane secco e a volte un po’ di burro. Poi si andava a dormire su letti a castello infestati da pulci, zecche e pus dei prigionieri. Essendo migliaia i prigionieri erano costretti a dormire sul fianco e stretti tra loro. Non c’erano servizi igienici nè assistenza medica: i medici nazisti erano lì solo per compiere assurdi e inutili esperimenti sui corpi dei deportati. Fame, tifo ed epidemie erano all’ordine del giorno ma non solo. Erano frequenti anche botte, punizioni, fucilazioni e morti di persone sfinite dal duro lavoro e dalla pesante condizione di vita. Il 27 gennaio del 1945 il campo venne liberato dalle truppe sovietiche. In totale ad Auschwitz sono state uccise circa un milione e cinquecento mila persone. Per non lasciare tracce le SS bruciarono i loro cadaveri nei forni crematori o nelle fosse comuni.
Nel museo di Auschwitz, composto da diversi blocchi, osservo lentamente le vetrine dove sono esposti i documenti degli Ebrei deportati e le registrazioni fasulle delle SS. Ci sono alcune raccapriccianti foto sulle pareti, tra queste, quella di bambini in pelle e ossa fotografati durante gli esperimenti del macabro dottor Mengele. Entrando in alcune stanze sento improvvisamente odori forti che sembrano aver impregnato i muri. Vedere i capelli, ormai ingrigiti, delle persone morte nella camera a gas mi lascia senza fiato. C’è persino una lunga treccia in mezzo ai quintali di capelli. In una vetrina vedo una montagna di occhiali, in un’altra un mucchio di protesi di persone handicappate e in un’altra ancora migliaia di scarpe per bambini e andando avanti scorgo anche quelle per adulti. I miei piedi mi portano di vetrina in vetrina ma la mia mente è travolta da una tempesta di perché. Il mio cuore pulsa velocemente e il mio animo rifiutando la vista di questi oggetti strappati violentemente agli Ebrei è affranto. Nel silenzio assoluto le persone camminano lentamente a testa bassa e qualcuno con il fazzoletto in mano. In un altro blocco centinaia di foto dei prigionieri sono appese lungo la parete di un interminabile corridoio. Facce smunte con corpi che indossano divise a righe che somigliano a pigiami mi osservano: in basso sono incise le date di arrivo e di decesso. La maggior parte dei deportati è sopravvissuta ad Auschwitz neppure un mese o addirittura un paio di settimane. Le loro condizioni di vita erano talmente disastrose che noi oggi non possiamo neanche immaginarle. Rabbrividisco non per il freddo ma per i loro occhi persi e terrorizzati. Giungo il blocco n.11 tristemente chiamato “il blocco della morte” dove per l’appunto la morte era certa. Ospita celle strette e buie dove passa solo un filo d’aria. Qui un gran numero di prigionieri veniva ammassato e lasciato in piedi per giorni, dopo i quali era difficile sopravvivere. Nel cortile vedo un muro dove sono stati fucilati migliaia di Ebrei; oggi ci sono corone di fiori che li ricordano. Di fianco noto finestre murate o coperte da assi di legno che impedivano agli altri prigionieri di sapere che lì dentro “i medici” realizzavano esperimenti su bambini, su gemelli e sulla sterilizzazione di donne e uomini. La maggior parte moriva a causa di atroci dolori o per indebolimento fisico.
Le stanze dei forni crematori erano scure, quasi nere. La camera a gas si trova a questi di fianco per facilitare il trasporto dei cadaveri.
Dopo un veloce pranzo, il pullman ci porta a Birkenau che dista circa 1 km. e mezzo da Auschwitz. Qui la situazione era peggiore di quella appena descritta. Entrando mi accorgo di camminare sopra dei binari sui quali arrivavano treni da varie parti d’Europa con gli Ebrei destinati alla “Soluzione Finale”, cioè lo sterminio. Le baracche avevano solo il tetto perciò la pioggia o neve filtravano dentro e i pavimenti non erano di cemento ma fango, per cui i prigionieri quando entravano profondavano nella terra fino alle caviglie. I camini c’erano ma non venivano mai accesi. L’igiene non esisteva neanche lì. Il campo è enorme, vasto, interminabile e con la neve attorno crea un’atmosfera quasi spettrale. Davanti a me chilometri di fili spinati e baracche isolate, molti delle quali essendo state demolite hanno lasciato scheletri di camini. Nevica sempre più forte e ad ogni mio passo penso agli Ebrei che solo con il loro “pigiama” leggero e gli zoccoli di legno camminavano come me sotto innumerevoli fiocchi di neve, al freddo, con la stanchezza del lavoro forzato e della mancanza di una giusta alimentazione. Allora mi chiedo: come facevano? Che cosa li portavano a continuare a vivere e ad avere le speranze?
Birken(au) in tedesco vuol dire “alberi di betulla” infatti lì ce ne sono tantissimi. Non riesco a vederli come un bel panorama perché so che sotto la neve, sotto la terra sono sepolte le ceneri di migliaia di persone. E’ come passeggiare su un grande cimitero.
Visito la “Sauna” dove venivano disinfettati i vestiti degli Ebrei per poi essere inviati a Berlino e venduti ai tedeschi.
La stanchezza, improvvisamente mi sta travolgendo, ho visto e percepito troppe cose, la giornata è stata lunga e piena di forti emozioni. Ma la vista delle foto raccolte dai bagagli degli Ebrei che raffigurano famiglie intere, ritratti di bambini sorridenti, uomini e donne elegantemente vestiti, ragazze belle e spensierate, mi infondono una tenerezza incredibile. Sorrido guardandoli e immagino i loro giorni immortalati nelle foto.
Mi allontano con il cuore gonfio di tristezza e tanta commozione. Non potrò mai dimenticare questi luoghi e chi è stato condannato a viverli. All’uscita mi è venuto in mente una citazione letta da poco in un libro: “Raccontatelo ai vostri figli, e i figli vostri ai loro figli, e i loro figli alla generazione seguente.” (Gioele,1,3).
mercoledì 3 marzo 2010
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